L’accostamento tra Oscar Culmann
(teologo svizzero, ma attivo soprattutto a Strasburgo e a Parigi) e Wolfhart
Pannenberg (professore di Teologia sistematica fino allo scorso anno a Monaco di
Baviera nella facoltà protestante di teologia, fondata recentemente) è
pertinente, perché Culmann, nel suo libro Cristo e il tempo, uscito nel 1946, ha introdotto il tema della
storia della salvezza, tema per noi forse scontato e ovvio come concetto
centrale del cristianesimo. In ambiente protestante, dominato dalla scuola
bultmaniana, questo libro non venne accolto con molto entusiasmo.
Nell’introduzione alla terza edizione del 1962, tracciando un bilancio sul
dibattito intorno a questo studio, Culmann, in modo un po’ sconsolato, cita in
nota l’opuscolo curato da Pannenberg e dai suoi compagni del Circolo di
Heidelberg (Rivelazione come storia,
uscito nel 1961), il quale rappresenta un secondo tentativo di rimettere gli
interessi fondamentali di Culmann al centro della teologia. Ci sono punti in
comune, in particolare quello di considerare la storia della salvezza come un
cammino e come una categoria centrale del cristianesimo: il tempo che si spinge
verso il futuro, viene verso il presente, ma era cominciato nel passato più
remoto.
Questa concezione realistica della
storia, vista come un tempo segnato dalla quotidianità e indirizzato verso un
futuro che non è ancora avvenuto, è propria sia di Culmann sia di Pannenberg.
Essa si inserisce nel dibattito teologico riguardante l’escatologia,
riscoperta in ambito protestante, nel 1892, quando Johann Weiss aveva
sottolineato, nel suo libro L’annuncio
del regno di Dio, come Gesù credesse nell’imminenza della fine del mondo
e nella venuta del regno del Padre nella gloria. Pur riconoscendo che Gesù, a
differenza di altra letteratura apocalittica, insiste meno sullo scenario di
distruzione spettacolare (il sole che cade, la luna che si trasforma in fuoco,
il mare in sangue, ecc.) e più sulla conversione, resta il fatto che Gesù
attende il regno di Dio venuto con potenza.
Di fronte a questa riscoperta ci
sono state due reazioni che, secondo Culmann, non sono accettabili: la prima,
denominata escatologia conseguente, è
quella di Albert Schweitzer (e forse dello stesso Weiss), secondo la quale si
prende sul serio l’accentuazione del tema della fine del mondo (tanto che
Schweitzer, come si sa, nel 1908, andò in Africa a curare i lebbrosi). Noi
possiamo intendere la fine come «cessazione» di qualcosa oppure come «compimento»
di un processo: vedere la fine del mondo nel suo aspetto di catastrofe è un
modo unilaterale di considerarla. A questo proposito, Cullmann fa osservare che
noi possiamo considerare la storia
come finita, nel senso che ha dato ormai un frutto maturo: con Gesù, si è
mostrato il destino ultimo dell’uomo e l’autenticità della vita umana. Tale
realizzazione iniziale è definitiva, nel senso che è insuperabile, anche se
ora la storia va avanti e resta aperta: in Gesù è stato già anticipato il
compimento per tutti noi. Anche Pannenberg sottolinea che la resurrezione è un
evento-limite, escastologico: è vero che, finora, essa ha riguardato soltanto
la vita di Gesù, ma è altrettanto vero che anche noi, come realizzazione
massima della nostra vita, possiamo pensare soltanto alla resurrezione, la quale
è un punto di arrivo insuperabile. Cullmann fa l’esempio dello sbarco in
Normandia, come la battaglia decisiva per le sorti della Seconda Guerra
mondiale, e del Victory Day: Gesù è decisivo per la storia, anche se la storia
rimane aperta. Per Cullmann, Gesù è il centro e il compimento, che è un altro
modo per dire che Gesù è Dio. Da parte di Pannenberg si sottolinea l’idea di
prolessi, di anticipazione: in Gesù
si è avverato, anticipatamente, il destino che è promesso ad ogni uomo; tale
anticipazione, essendo reale, porta un equilibrio tra il già e il non-ancora.
Contrapposta all’escatologia
conseguente, c’è la teologia esistenziale di Bultmann e della sua scuola, che
parlano di una escatologia realizzata.
Ciò che conta è il senso del cristianesimo e della vita di Gesù; non si deve
quindi considerare il mondo a diversi piani, un aldiqua e un aldilà, ma vedere
che Gesù ha scoperto l’autenticità della vita umana e l’ha comunicata già
in questa vita: è già avvenuta la salvezza in chi decide di aderire a Gesù
nella fede. Non si deve aspettare un compimento chissà quando e chissà dove,
perché già nell’istante dell’adesione di fede avviene la salvezza
escatologica, in un’unità paradossale che congiunge nell’istante il tempo,
in tutta la sua fragilità, sotto il segno della croce e del nascondimento, e
l’eternità, in tutta la sua forza e potenza. Questa escastologia realizzata
rende superfluo e fuori posto dare importanza ad un futuro in cui il regno di
Dio dovrà realizzarsi in avvenire: si tratta di una concezione che riduce il
tempo al suo significato per l’esistenza. Pannenberg rileva che qui c’è la
stessa logica che c’è in Essere e tempo
di Heidegger, in cui, per esempio, l’anticipazione della morte è,
all’inizio, un’anticipazione della morte vera (solo l’uomo è consapevole
della propria morte), ma poi, man mano che procede l’analisi, si dimostra che
ciò che conta è il senso che noi diamo alla morte, quindi il modo in cui noi
la affrontiamo fin da ora. Ciò che è tipicamente umano è la capacità di dare
un senso fin d’ora alla propria morte. Allo stesso modo vengono interpretate
la fede e la storia: ciò che realizza e porta a compimento la storia si fa già
ora, nella croce e resurrezione di Cristo e in coloro che aderiscono alla fede
in Cristo; rinviare ad un futuro è qualcosa che non tocca il cuore dell’uomo,
una salvezza interiorizzata.
Sia Cullmann che Pannenberg
lamentano una mancanza di adesione al tempo reale: si trasforma il tempo in temporalità
dell’esistenza, la storia in storicità
dell’esistenza, cioè si riassorbe la storia nella sua anticipazione,
mentre invece bisognerebbe riuscire a mantenere il difficile equilibrio tra una
salvezza che, da un lato, è già avvenuta, ma che, dall’altro, è contestata,
sta ancora combattendo nella storia e non si è ancora imposta in maniera
evidente fino ad abbracciare tutta l’umanità: la resurrezione di Cristo è un
fatto accaduto solo a lui, ma che dovrà accadere a tutti, anche alla natura
stessa. Entrambi, Pannenberg e Cullmann, cercano questo difficile equilibrio,
che, di per sé, è tipicamente cristiano. Infatti, mentre gli Ebrei, che ancora
aspettano il Messia, possono aspettarlo per un futuro ultimo, il cristianesimo,
per il quale è ugualmente vero che il
Messia è già venuto e che la storia continua, si trova di fronte ad una
duplice difficoltà: primo, dov’è la salvezza che noi vediamo ancora
combattuta? secondo, se la salvezza
è già avvenuta, a che cosa serve la storia? Tenere insieme il già e il non.ancora
è un problema complesso.
Sebbene fin qui Cullmann e
Pannenberg lavorino insieme, tuttavia sono anche molto diversi. Cullmann,
protestando di essere soltanto un esegeta, non vuole entrare in questioni di
teologia sistematica: egli vede la dogmatica come un ostacolo alla scoperta del
senso inerente al testo stesso della Scrittura; tanto meno vuole fare delle
riflessioni filosofiche.
Pannenberg invece si ritiene, prima
di tutto, un teologo sistematico; egli ha sempre tenuto insieme filosofia e
teologia, anzi, invita -inutilmente- i protestanti a riprendere una tradizione
che è patristica e medievale, una tradizione in cui la ragione e la fede
viaggiavano insieme. La scissione fede-ragione, tipica della modernità, non è
utile né per la scienza, che vorrebbe essere una conoscenza vera, né per la
teologia, che ha in fondo la stessa pretesa: se la verità è una sola, in
qualche punto fede e ragione devono pur incrociarsi. Pannenberg è consapevole
del problema ermeneutico, del fatto cioè che non è possibile interpretare un
testo senza una precomprensione, per esempio un’ipotesi di lavoro. Il problema
non è di ignorare ciò, ma di esplicitare la propria precomprensione per
renderla il più aderente possibile al testo, perché una teologia biblica allo
stato puro non esiste, visto che una teologia biblica è già una teologia
dogmatica e sistematica. Bisogna non solo esplicitare la precomprensione e
renderla adeguata al testo, ma anche, secondo Pannenberg, affrontare un problema
di portata generale: se e come sia possibile attualizzare nella modernità
secolarizzata la tradizione cristiana. Secondo Pannenberg, che considera Hegel
come il maturo rappresentante della modernità, la concezione hegeliana della
storia, sia pure riveduta e criticata, e la concezione storica inerente già
all’antico testamento sono vicine molto più di quanto non lo siano la
tradizione biblica originaria e la componente greca del pensiero cristiano, che
insisteva soprattutto su un tempo ciclico e sull’essenza vera delle
cose come immutabile e non, invece, come un processo. Da questo punto di vista,
la storia è, per Pannenberg, come un ponte tra il pensiero ebraico-cristiano e
quello moderno.
Le obiezioni esplicite che
Pannenberg rivolge a Cullmann sono sostanzialmente due: primo, il fatto che
Cullmann considera la storia della salvezza come una storia particolare (storia
sacra), opponendola quindi alla storia
profana, così come il tempo della fede è opposto al tempo della scienza.
Per Pannenberg ciò è impossibile: se si vuole stare aderenti al primo
comandamento (che proclama l’unicità di Dio) c’è una sola realtà. Che poi
la si chiami «storia» o «natura», resta il fatto che, nella mentalità
moderna, evolutiva, storia della natura e storia dell’umanità fanno parte di
un unico movimento; Dio, cioè, deve essere rilevante per tutti gli aspetti
della realtà. Ciò non significa che non sia possibile distinguere diverse
componenti della storia; il punto è che, a partire da questi eventi
particolarmente intensi della storia della religione, Dio vuole raggiungere tutta
la storia. La rilevanza della storia della salvezza è tale da tendere ad
inglobare tutta la storia. Esiste quindi una sola storia.
La seconda obiezione riguarda la
conoscenza: secondo Cullmann, dopo la chiusura del canone neotestamentario, è
difficile dire dove sta andando la storia umana, dove è storia di salvezza e
dove invece non lo è. Pannenberg, invece, sostiene che, se veramente Dio è il
Dio di tutti e vuole salvare tutti, allora bisogna che egli sia anche
conoscibile da tutti e quindi accessibile alla ragione umana. Certo, soprattutto
nella modernità, la ragione ha ignorato spesso Dio, ma ciò -dice Pannenberg-
è avvenuto a causa del traviamento della ragione. Una ragione ricondotta alle
sue potenzialità più vere è in grado di riconoscere l’azione di Dio nella
storia; se c’è una storia della chiesa, come è possibile trattare questa
storia senza riconoscere che Dio è, nonostante tutto, all’opera? Se la storia
della chiesa è pur sempre inserita nella storia umana, com’è possibile
tenerla separata e non vedere che ci sono evidenti ripercussioni della storia
della chiesa sulla storia umana? Di nuovo, secondo Pannenberg, l’istanza della
universalità sia della storia della salvezza sia della conoscenza di essa è
legata alla nostra fede monoteista: credere che c’è un solo Dio e che egli è
Dio di tutta la storia e di tutti gli uomini non basta; bisogna anche
riconoscerlo all’opera tramite segni e anticipazioni della salvezza nella
storia. Se tali segni non vengono trovati, significa fare, sia pure tacitamente,
un’ammissione di ateismo. In questa direzione, Pannenberg si rifà anche a Rm
1,19ss. dove Paolo dice che, attraverso le cose visibili del mondo, è possibile
riconoscere ragionevolmente la
potenza eterna e la divinità di Dio, almeno quanto basta per rendergli gloria e
ringraziarlo. Ciò significa che, in linea di principio, la ragione umana deve
aprirsi a Dio e il compito della teologia è di aiutare la ragione a convertirsi
(Pannenberg infatti è sostenitore di una teologia
della ragione: vedere attraverso quali punti la ragione, pur restando
ragione, anzi diventando più fedele a se stessa, possa far posto alla
rivelazione di Dio, alla fede).
In ordine quindi al tema di questo
ciclo di incontri, si può dire che la posizione di Pannenberg è quella di
voler evitare una contrapposizione tra storia della salvezza e storia del mondo,
tra tempo sacro e tempo della scienza. La loro unità è più profonda e
radicale della loro distinzione e ciò in riferimento all’unicità di Dio.
Definire il sacro come un ambito particolare significa contrapporlo al profano,
suggerendo quasi che il profano possa essere compreso senza far riferimento a
Dio. Ma se Dio non fosse rilevante per ogni aspetto dell’essere e della
conoscenza del mondo, ciò equivarrebbe a dire che il mondo non è stato creato
da Dio e redento da Cristo. Certo, parlare è facile; un altro conto poi è
svolgere questo tema in modo non apologetico, con ipotesi ad hoc, cercando a tutti i costi un aggancio fra un discorso
religioso e uno profano. Rispetto alla divisione galileiana, secondo cui la
fisica si occupa di come va il cielo, ma non di come si va in cielo, Pannenberg
si dichiarerebbe d’accordo dal punto di vista della fisica, perché la fisica
è una scienza particolare che prescinde da molti aspetti della realtà ed è
valida e rigorosa negli aspetti che studia e affronta; tuttavia questa posizione
non sarebbe accettabile per la teologia, perché la teologia, occupandosi di
tutta la realtà nel suo rapporto con Dio (sub
ratione Dei, come dice san Tommaso), non può accettare che esistano delle
realtà impermeabili a qualsiasi aggancio religioso, perché ciò
significherebbe ammettere che o esistono ambiti per altre divinità oppure che
Dio non è il creatore di tutto.
Nel suo tentativo di riaggancio
della teologia alla scienza, Pannenberg sostiene che non è la scienza ad
interessarsi di questo, perché le scienze sono astratte e parziali, ma la
teologia, che ha il suo messaggio religioso a cui aderire il quale le dice che
c’è un solo Dio, un solo Salvatore: per tutta la realtà e tutti i suoi
molteplici aspetti bisogna indicare qual è il rapporto possibile con Dio. I
contributi di Pannenberg in questa direzione sono raccolti soprattutto nel
secondo volume della sua Teologia
sistematica, in cui tratta della creazione in dialogo con la scienza
moderna, riconoscendo che si tratta di un tentativo. Altro testo rilevante è Epistemologia
e teologia, del 1973: in esso Pannenberg cerca di dimostrare, dal punto di
vista del metodo e confrontandosi con Popper e con Habermas, come la teologia
possa rispondere ai criteri della scienza; certo non in modo rigoroso come fanno
le scienze naturali e le scienze umane, ma facendo valere l’istanza dell’integrazione, cioè la compatibilità dei vari
saperi: se la verità è una sola, non si possono accettare versioni della realtà
incompatibili, una del buon senso e una della scienza. Scienza e buon senso non
possono contraddirsi se la verità è una sola. Si tratta di un interesse
filosofico: se la filosofia vuole conoscere tutta la realtà, deve anche
mostrare che tutte le verità che noi crediamo di conoscere sono tra di loro
compatibili e non si contraddicono. Lo stesso vale per la teologia: anch’essa
è una scienza e quindi può e deve occuparsi delle ricerche delle altre scienze
per poterle in qualche modo integrare in una comprensione d’insieme della
realtà.
Anche per Pannenberg, evoluzione,
contingenza e storia stanno insieme. Il primo ostacolo, però, cui si trova di
fronte un teologo è il fatto che tutta la tradizione cristiana, influenzata
-secondo Pannenberg- più dal pensiero greco che dalla matrice ebraica, ha
sostenuto il fissismo, tanto è vero che per molto tempo Darwin è stato giocato
contro l’idea creazionistica e combattuto dalla Chiesa soprattutto perché
ritenuto incompatibile con l’idea della creazione. Pannenberg invece si sforza
di mostrare che il racconto sacerdotale della creazione, quello dei sette
giorni, rappresenta una posizione isolata nella Bibbia.
Mentre nei testi profetici e storici è prevalente e chiara la visione
storica della realtà, in questo testo, il primo sulla creazione, c’è
senz’altro qualcosa di incompatibile con la teoria evoluzionistica, in
particolare il fatto che il disegno della creazione sia considerato come già
compiuto sin dall’inizio. Tale compiutezza originaria è tipica, secondo
Pannenberg, del pensiero mitico, un pensiero delle origini che fonda tutto nelle
origini, mentre il pensiero storico è portato a porre la realizzazione e il
compimento soltanto alla fine. E’ propria quindi del pensiero storico la
fondazione escatologica, anche della creazione (la quale è ancora nelle doglie
del parto, non ha ancora trovato se stessa, è ancora nel farsi: sarà compiuta
solo alla fine).
Questa è l’innovazione principale
che Pannenberg ritiene di dover introdurre: se si accetta che il porre una
creazione compiuta fin dall’inizio non è proprio della mentalità storica
della Bibbia e quindi si accetta di spostare la creazione e il suo compimento
nell’escatologia, allora si deve anche invertire il punto di vista, cioè
riconoscere che la creazione fin dall’antichità era fatta a partire da quel
futuro che non abbiamo ancora visto e verso il quale camminiamo ancora stimolati
da questo futuro, il quale è come se aprisse sempre nuovi spazi e attirasse
verso di sé, verso il compimento una creazione che stenta e combatte, ma che
alla fine trova la sua strada, in una maniera contingente, discontinua e per vie
traverse che però alla fine disegnano un’andatura convergente. Sia pure nel
segno del frammento, noi anticipiamo già il compimento. Il tutto però va visto
a partire dal futuro di Dio; il futuro ha un’esistenza autonoma, mentre la
nostra esistenza, contingente, frammentaria e anticipativa, può trovare
stabilità solo andando verso un futuro di compimento.
Certo, questo è il primo passo che
il teologo deve compiere se vuole parlare della storia inglobando tutta la realtà,
anche quella naturale, nell’unico cammino della realtà verso Dio.Tuttavia,
sino a questo punto, non è in gioco la scienza, ma soltanto l’apparizione
religiosa, che per Pannenberg ha un suo statuto prioritario e autonomo: se si
vuole parlare della creazione, della salvezza o del superamento del male, non
possiamo consultare la fisica o la biologia, ma la religione. A partire dalla
religione, bisogna però chiedersi se sia pensabile e plausibile che questi
elementi riguardino la nostra storia effettiva; il mondo in cui viviamo può in
qualche modo essere riconosciuto come creato da Dio, come salvato da lui? La
sfida è prendere in parola la
religione, rendendosi però conto che essa ha implicazioni con la realtà le
quali devono essere confermate su una base indipendente (bisognerebbe che anche
le scienze potessero convergere con la religione). La scienza moderna, una volta
resasi autonoma dalla religione, ha estinto, secondo Pannenberg, la domanda
religiosa, cioè ha impostato un’analisi dei fenomeni che tende a comprenderli
all’interno di se stessi e non a mettere in luce il loro rinvio oltre se
stessi. La teoria moderna della forza, per esempio, tendeva sempre di più a
dire che si tratta di una proprietà dei corpi e quindi anche il movimento è
un’espressione di questa forza inerente ai corpi. Dice Pannenberg: se essa è
inerente ai corpi, la domanda su chi muove il mondo (la domanda originaria delle
“cinque vie” che spingeva a trovare una causa ultima) non si pone più,
perché la conclusione è che il corpo è dotato di certe forze, ha
un’inerzia; questa posizione non è legata alla scienza così da identificarsi
con la scienza. Se noi invece consideriamo la teoria dei campi, le forze non son
legate ai corpi, ma allo spazio e al tempo, e i corpi sono delle singolarità
determinate dalle forze che agiscono in questi campi.
Pannenberg studia soprattutto
Faraday, il quale sembra dare una priorità al campo rispetto ai corpi che sono
in esso; certo, anche se poi il campo e i corpi interagiscono, è possibile,
sostiene Pannenberg, pensare ad una priorità del campo di forze. Se ciò è
possibile, sarebbe anche un modo di vedere come la fisica stessa può essere
agganciata a un contesto di considerazione più ampio, perché, se esiste un
campo, esistono più campi e quindi ci si può chiedere se esiste un campo di
tutti i campi. Newton, quando parlava del tempo e dello spazio assoluti, pensava
in fondo ad un campo di tutti i campi; anche se Leibnitz ha criticato Newton e
Clark sostenendo che avevano una concezione del tempo come infinito divisibile,
Pannenberg dice che Newton e Clark pensavano ad un tempo come infinito
indivisibile e quindi appartenente ad un infinito attuale, il quale perché non
potrebbe essere l’infinità di Dio? Se otteniamo degli infiniti divisibili,
aderenti ai corpi, dobbiamo pur sempre dire che la potenza di Dio non solo resta
trascendente, ma compenetra anche l’infinito divisibile dello spazio e del
tempo, per cui effettivamente Dio è sempre presente. Non era quindi sbagliato
vedere l’infinità del tempo e dello spazio come espressioni
dell’onnipresenza di Dio.
Naturalmente qui siamo nelle
speculazioni più selvagge, le quali però mostrano come, a partire da una
teoria fisica, sia possibile scorgere una possibilità di aggancio ad una
domanda ulteriore circa il fondamento della realtà. In altri tipi di teoria,
invece, questa intenzione non si vede. Prendiamo l’esempio della concezione
della vita: se noi diciamo che la vita è una proprietà della cellula, tutto
finisce lì e non ci viene da domandarci da dove viene la vita, cioè la domanda
su un fondamento ulteriore e altro da quello che è la proprietà di una certa
materia e organizzazione. Se invece sottolineiamo fin dal principio che nessuna
cellula può esistere al di fuori di un certo ambiente, subito stabiliamo che è
essenziale per la vita essere in rapporto ad un ambiente: questo rappresenta un
punto di vista diverso che spinge a chiedersi allora qual è l’ambiente vitale
ultimo. Ci sono qui delle tradizioni che risalgono già all’Antico Testamento
e allo Stoicismo e che Pannenberg ricostruisce pazientemente: questo ambiente
vitale ultimo sarebbe lo spirito, il quale è concepito come un campo che è
vitale, nel senso che è vivificante, cioè consente il sorgere della vita; è
comunque un campo ultimo e non un campo prossimo (in questo campo, cioè, non
esiste il DNA), ma è un ambiente che è condizione della vita.
Si tratta di esempi che mostrano, a
mio parere, la serietà del tentativo pannenberghiano di trovare una connessione
con la scienza su delle tematiche di fondo e non su qualche lacuna dove la
scienza non è ancora arrivata (e allora lì ci mettiamo la teologia in modo
che, quando la scienza ci arriva, facciamo di nuovo un passo indietro). Per
trovare un rapporto tra teologia e scienza bisogna trovare delle idee
fondamentali su cui esse si possano incontrare. Per esempio, il tema della
cosmologia o il tentativo di Pannenberg di ripensare il giudizio finale in
rapporto alla concezione del tempo soprattutto tentando di risolvere quelli che
sembrano oggi i problemi più centrali, cioè: dobbiamo tenere l’immortalità
e la resurezione dei morti come sinonimi compatibili oppure come due versioni
diverse di come sarà il futuro dell’uomo? E’ chiaro infatti che
l’immortalità dell’anima punta su un elemento dell’uomo che resta uguale
a se stesso e che è stato introdotto nel cristianesimo, secondo Pannenberg,
proprio perché assicura l’identità dell’individuo, e cioè che colui che
risorgerà sia precisamente uguale a quello che viveva nella carne in cui noi
siamo. Se c’è questo tramite di continuità, sarà più plausibile affermare
che saremo veramente noi in carne ed ossa ad incontrare Dio, una elemento
assolutamente essenziale per il cristianesimo. Se invece consideriamo la
prospettiva della resurrezione, anima e corpo sono considerati come un tutt’uno
e quindi anche la morte è vista come una morte totale. Ma allora è possibile
anche solo pensare alla resurrezione? Non avremmo più lo stesso uomo, ma una
copia; siccome la persona ha cessato di vivere, pur avendo tutte le informazioni
per poterla riprodurre, sembra che al massimo ne potremmo fare un sosia (e si
pensi alla clonazione). Pannenberg cerca di tagliare la testa al toro: secondo
lui, infatti, si può stare sulla linea della resurrezione semplicemente
accettando la morte totale perché la fondazione dell’identità dell’uomo già
da ora non si basa su una continuità biologica, la quale sappiamo che non
esiste perché le nostre cellule cambiano continuamente, e neppure su una
continuità della memoria, che pure non esiste perché abbiamo amnesie, sonno,
sdoppiamento della persona e via dicendo. La nostra identità la troviamo
soprattutto pensando al futuro: rispetto a questo futuro ultimo, tutti gli
elementi e le tappe che formano il nostro sé trovano una convergenza e, siccome
questo futuro ultimo non è un punto focale ics
vuoto, ma è Dio, cioè un futuro ultimo con il quale possiamo stabilire un
rapporto attraverso Cristo facendo un solo corpo con lui, allora ciò che conta
è che siamo di Dio e che nessuno ci può strappare da lui. Non abbiamo bisogno
di affannarci per mantenere la nostra identità perché essa è già custodita
in Dio, nel suo affetto per noi. In questo modo si capisce anche una cosa che la
tradizione ha sempre detto, cioè che ciascuno di noi, alla sua morte, rientra
in Dio. E però ha un senso anche dire che noi aspettiamo un futuro ultimo dove
ci sarà la resurrezione finale, perché allora Dio, dice Pannenberg, restituirà
l’essere singolare a ciascuno, a tutte le generazioni passsate e future. Si
capirà anche come sarà il giudizio di Dio perché, rendendo compatibili tutti
gli uomini di tutti i tempi, sicuramente deve essere estinto ogni elemento di
divisione radicale sia con Dio sia con gli uomini. Tutto ciò che è contrario
all’unione dell’umanità con Dio non può passare attraverso questa
barriera: passerà l’umanità riconciliata e risorta. Ciò che conta è questa
realtà finale della resurrezione, la quale non può essere data ai singoli
perché deve essere la riconciliazione
universale; i singoli saranno intanto conservati nel seno di Dio e nella memoria
di Dio accolti come dormienti. Qui Pannenberg fa lo sforzo di fornire una
versione motivata di queste realtà, perché è vero che -dice- la fisica mostra
come va il cielo e la religione come si va in cielo, ma, se il cielo della
religione adagio adagio non è più il cielo della fisica e nemmeno un altro
cielo, alla fine si può pensare che non ci sia; bisogna almeno che sia
pensabile, configurabile, proponibile come possibile e come una conclusione
accettabile del cammino della storia.
Del resto, per concludere, cosa
significa dire che l’escatologia è essenziale nella storia cristiana? Vuol
dire accettare che il Vangelo, se si realizzasse veramente in questo mondo,
porterebbe ad un cambiamento tale da essere incompatibile con la situazione di
vita attuale, cioè comporterebbe una trasformazione della natura: se noi siamo
come Dio ci vuole, il nostro mondo deve essere cieli nuovi e terra nuova, e
questa sarebbe la fine del mondo, perché la fine del mondo è un salto di
qualità, un entrare nella realtà di Dio.
(testo ripreso
dal registratore e non rivisto dall’Autore)
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